Perché insistere sulla Privacy in tempo di Coronavirus?

Perché insistere sulla Privacy in tempo di Coronavirus?

È veramente importante parlare dei dati personali in un momento di emergenza sanitaria? La risposta breve è “forse sì”.
Come si è discusso oggi all’evento “Privacy, controlli e trasferimento dei dati personali al tempo del
Coronavirus” promosso da Federprivacy con la collaborazione dell’università di Padova (dipartimento di Sciente politiche, giuridiche e studi internazionali), sono emerse particolari criticità che non lasciano dubbi al loro riguardo.

O sarebbe meglio dire che non ci sono dubbi sull’esistenza di dubbi ai quali al momento non è possibile dare una risposta conclusiva.

Molti parlano del fatto che il diritto prevalente debba essere quello della salute, e che quindi quello della privacy debba essere messo in secondo piano se non completamente “tralasciato”.

Questo avrebbe un senso solo per l’uso comune che si fa del termine “privacy”, ma purtroppo o per fortuna le norme sulla Privacy non riguardano semplicemente la sfera del privato o personale, invece si rivolgono in modo preponderante sugli effetti negativi che devono essere evitati.

E quali possono essere gli effetti negativi di un App che vorrebbe porsi come strumento di contenimento e gestione dell’emergenza, giusto per rimarcare la più innovativa?

Le questioni sulle quali è necessario soffermarsi sono molte, ma quelle principali sono legate agli effetti di una errata gestione delle informazioni rilevate.

Ad esempio, i dati di posizione rilevati attraverso lo smartphone quanto sono precisi?

Il marketing dell’industria del settore afferma che la rilevazione può essere nell’ordine della decina di centimetri, mentre addetti allo sviluppo di applicazioni sottolineano che questa precisione è solo ideale e si manifesta solo in particolari circostanze.

Sembrerebbe che la realtà dei fatti porti a considerazioni di un tipo specifico e dettagliato di problemi che potrebbero nascere dall’uso di dati parzialmente affidabili.

Immaginiamo l’utilizzo della localizzazione per determinare se una persona ha avuto o meno contatti con un malato COVID-19 e, sempre come esempio, che questa persona sia entrata in un appartamento al 3° piano e che al 4° piano del medesimo palazzo, giusto nell’appartamento sopra di lui, è presente un dichiarato COVID-19 che utilizza la medesima App.

Forse ai più può sfuggire un fatto tecnico altamente impattante e pericoloso, ovvero che con molta probabilità il sistema considererà l’abitante del 3° piano come venuto a contatto dell’abitante del 4° piano perché, e va sottolineato, la localizzazione in luoghi chiusi è, per la modalità con la quale viene effettuata, altamente imprecisa con errori che possono arrivare a decine di metri.

Questo anche nel caso dell’uso preventivato dei segnali Bluetooth. Il discorso della precisione non cambia.

Se un App di gestione della diffusione della malattia verrà usata solo per registrare la massa di informazioni e determinare politiche generali non individuali, il problema di creare danni sarà minima.

In questa logica l’uso individuale potrebbe essere limitato ad un effetto placebo sull’isteria, con l’evidente problema di creare però un falso senso di sicurezza.

Ma è più probabile, viste le dichiarazioni del Governo, sottoporre il singolo a controlli più puntuali come ad esempio l’auto dichiarazione di malattia, o l’obbligo di non lasciare il proprio domicilio se positivi o potenzialmente entrati in contatto con un positivo.

Quindi un individuo dichiarato come positivo dovrà rimanere presso il proprio domicilio dove l’App sarà in grado di avvisare le autorità di un eventuale allontanamento non autorizzato.

Considerando l’obiettivo di contenimento si potrebbe affermare il suo raggiungimento con una simile tecnologia.

Ma il confine tra obbiettivo perseguito e lesione dei diritti della persona in questa contingente situazione diventa veramente labile.

Nel caso dell’obbligo domiciliare, quali saranno i parametri che vengono adottati per individuare l’assolvimento di questo obbligo? Siamo difronte a sistemi paragonabili agli arresti domiciliari?

Certo è, in un momento come questo, le paure di orwelliana memoria potrebbero avere il sopravvento sulle molteplici dimensioni concrete da valutare.

E una dimensione da considerare è certamente quella della sicurezza dei dati che, secondo la mia opinione, non deve essere centrata solo sul possibile hackeraggio dei dati ma sull’uso improprio sia a livello di procedure automatiche di valutazione sia all’uso non congruo da parte degli enti preposti all’applicazione delle misure di sicurezza.

La mia osservazione è certamente pragmatica e focalizzata, ma non dobbiamo dimenticare che nel caso vengano adottare misure estreme come l’obbligo di installazione e uso di una simile App (cosa al momento non vera), o quantomeno caldamente consigliata, rimangono aperte molte facce diverse ma non tutte della stessa portata.

Questa dimensione, la sicurezza dei dati, non è di poca cosa, vista la criticità della rilevazione dei dati, perché l’impatto sulla vita delle persone sarà comunque pesante.

La compressione dei diritti non è quindi qualcosa di poco conto e, alla luce della modifica delle nostre abitudini di vita, viene da pensare quanto questa situazione permarrà e quand’anche terminerà se le modifiche ai nostri diritti saranno ripristinate o, come più volte accaduto, si penserà di lasciarle così come sono in previsione di ulteriori emergenze da venire.

Deve rimanere quindi chiaro, da un punto di vista della Privacy, l’esigenza di mantenere attiva la normativa la quale non nasce come baluardo estremista di divieto completo di accesso alla vita privata di un singolo individuo, ma come strumento di porre il singolo sopra tutto o almeno alla pari.

Non ci dobbiamo dimenticare che l’emergenza sanitaria riguarda i singoli e che non può prevalere, giusto buon senso, un’entità collettiva priva di essenza sopra le libertà di un individuo, libertà che comprendono anche il diritto alla salute in tutti i suoi aspetti ma nel rispetto della dignità umana.

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